LA GUERRA SPORCA DI TRUMP ( e Meloni) ALLA TRANSIZIONE VERDE e COME FARE PACE.

Articles 30 Sep 2025

A New York oltre alla UNGA si è anche svolta la Climate Week, un appuntamento voluto dal Segretario Generale Guterres per fare il punto sugli impegni climatici dei vari paesi e regioni;  si é svolge qualche settimana prima della COP30 a Belem e ha visto la partecipazione non solo di esperti e attivisti, ma anche di imprese da tutto il mondo; e in un contesto quanto mai tragico, con guerre e conflitti sempre più insolubili e che minacciano direttamente non solo la vita di milioni di persone ma anche qualsiasi ambizione positiva di lotta ai cambiamenti climatici.

Tanto per fare un esempio, Il settore militare è stimato essere responsabile di una percentuale compresa del 5,5% delle emissioni globali: se fosse uno stato, sarebbe il 4° emettitore al mondo; solo il riarmo della NATO, se attuato come previsto, potrebbe portare a un aumento delle emissioni annuali di gas serra tra 87 e 194 milioni di tonnellate. L'impronta ecologica della guerra di Gaza, in termini di anidride carbonica rilasciata nei primi 15 mesi, ha superato le emissioni annuali di oltre cento stati.

C’è dunque uno stretto legame fra i tamburi di guerra e l’attacco durissimo di Trump alla lotta ai cambiamenti climatici: la logica della guerra come metodo sempre più accettato di relazione fra gli stati è dunque anche la più mortale minaccia alla lotta al clima impazzito, anche per una questione di metodo: per definizione, sul clima tutti devono essere coinvolti e agire. Le Conferenze sul clima sono fra le pochissime occasioni di dialogo globale che coinvolgono tutti i paesi. Con i conflitti e le guerre attuali assistiamo attoniti a un ritorno della legge del più forte, allo smantellamento progressivo del diritto internazionale e del senso stesso della cooperazione basata su regole condivise. Salvaguardare questo metodo passa anche attraverso il successo dei negoziati sul Clima.

 

A seguito del vertice, circa un terzo (63) dei paesi ha ora annunciato o presentato i propri impegni climatici per il 2035, noti come “contributi determinati a livello nazionale” (NDC) e questo rappresenta circa la metà delle emissioni globali: gli USA e l’UE non sono compresi, gli USA perché si sono nel frattempo ritirati dall’Accordo di Parigi, la UE perché ancora non si è messa d’accordo. Gli NDC sono un requisito formale quinquennale previsto dal “meccanismo a cricchetto” dell'Accordo di Parigi, l'accordo storico per mantenere le temperature ben al di sotto dei 2 °C, con l'aspirazione di mantenerle a 1,5 °C, entro la fine di questo secolo.

Vorrei fare tre considerazioni sul Vertice sul clima a New York e la via da seguire.

Per la prima volta la Cina ha preso una serie di impegni concreti quantificabili al 2035, periodo assolutamente cruciale per capire se l’umanità riuscirà o no a ridurre radicalmente le emissioni climalteranti; nel momento stesso in cui Trump ha esortato tutti ad abbandonare, pena sanzioni, la strada “truffaldina” della riduzione della lotta alle energie fossili, Xi Jinping ha indicato l’obiettivo di volere creare una società “adattata” al clima attraverso la riduzione delle emissioni nette di gas serra dell'intera economia dal 7% al 10% rispetto al picco, “cercando di ottenere risultati ancora migliori”; l’aumento della quota di combustibili non fossili nel consumo energetico totale a oltre il 30%; l’espansione della capacità installata di energia eolica e solare a oltre sei volte i livelli del 2020, cercando di portare il totale a 3.600 gigawatt; l’aumento il volume totale delle riserve forestali a oltre 24 miliardi di metri cubi; rendere i “veicoli a nuova energia” dominanti nelle vendite di veicoli nuovi; l’espansione del mercato nazionale delle emissioni di carbonio per coprire i principali settori ad alta emissione (proprio ciò che Confindustria vorrebbe smantellare).

Intendiamoci: questi numeri rimangono molto al di sotto di ciò che la Cina dovrebbe fare per contribuire in modo sufficiente al mantenimento del target di aumento della temperatura di 1,5°/2° entro fine secolo ed evitare la catastrofe globale, calcolato dagli esperti intorno al 30% al 2035. E gli obiettivi di istallazione delle rinnovabili corrispondono a un rallentamento del ritmo attuale di crescita da oltre 300GW a circa 200GW all’anno; oltre al fatto che la quota di energia rinnovabile nel consumo energetico cinese è rimasta indietro rispetto alla capacità record installata, principalmente a causa delle difficoltà incontrate nell'aggiornamento delle infrastrutture di rete e degli incentivi economici che favoriscono ancora l'energia prodotta dal carbone. Gli ottimisti sostengono però che mai la Cina si era impegnata a ridurre le emissioni, ma solo a ridurne la crescita e questo rappresenta un utile “salto” almeno psicologico; inoltre, come spiega CarbonBrief, data la combinazione tra crescita straordinaria delle rinnovabili e investimenti in efficienza energetica sia probabile che la Cina vada oltre i propri obiettivi, come già accaduto in passato; alcuni sostengono anche che il picco delle emissioni sia già stato raggiunto, con cinque anni di anticipo: la direzione quindi, è chiara e questo non potrà che avere un impatto sulle politiche climatiche globali; inoltre, la Cina manifesta una ambizione di leadership di fronte al ritiro rumoroso degli Stati Uniti. Ce la farà facilmente, e alle sue condizioni, senza una reazione soprattutto da parte dell’UNIONE EUROPEA.

Già: e l’Europa? Il commissario europeo Hoekstra ha rimproverato la Cina di non essere abbastanza ambiziosa, ma ha portato a New York un sacco pieno di divisioni, poca determinazione sui prossimi impegni al 2040, una debole “dichiarazione di intenti” sui target al 2035; e ha lasciato a Bruxelles un contesto politico di persistenti minacce sulla corretta applicazione del Green Deal dell’impegno a emissioni zero nel 2050 spinto da lobbies e destra populista; rischiamo ad esempio passi indietro del tutto controproducenti sulla fine della vendita di auto a combustione interna nel 2035 che non aiuterà ma bloccherà la mobilità elettrica made in Europe; siamo in una situazione di grande confusione creatasi con la riapertura delle direttive sulla rendicontazione ambientale (Omnibus), che, invece di semplificare, ha penalizzato chi aveva già deciso di organizzarsi per applicarle; ma soprattutto, rimettere in questione norme già adottate e in corso di applicazione ha reso incerto tutto il quadro legislativo in vigore, anche per le continue richieste da parte dei settori legati ai fossili e della destra di rimettere in questione la transizione stessa e i suoi tempi. Il rischio di un ritorno indietro cosi plateale non è solo di rendere l’UE marginale nella partita climatica globale a partire dai negoziati della prossima COP a Belem. Ma anche di metterci fuori gioco nella competizione su innovazione e clean tech, nella quale già siamo molto in ritardo, di fermare investimenti e trasformazioni già in corso, di disperdere preziose risorse con ovvie ricadute economiche e sociali. Questa non è solo una questione tecnologica o commerciale: è una vera e propria partita politica, che si deve giocare puntando sulla mobilitazione del business verde, della società civile e la sua voglia di partecipazione, sulla contrapposizione diretta e competente alle campagne di disinformazione delle lobbies fossili e della destra populista, che hanno finora contato anche sul fatto che clima e transizione non hanno fatto parte dei temi prioritari per aggregare consenso neppure per i partiti progressisti.

 

È esattamente ciò che è necessario fare in Italia. Con urgenza, con pazienza e organizzando una efficace campagna per ribaltare le bugie che dominano il dibattito pubblico, usando le enormi competenze che pur esistono, ma che sono ancora troppo disperse. Nel suo intervento all’Assemblea dell’ONU Giorgia Meloni, che non ha partecipato al Vertice sul clima, ha confermato la sua piena adesione alla logica trumpiana in materia non solo di clima, ma anche di migrazioni e diritti, come sottolinea Virgilio Dastoli nel suo bell’articolo pubblicato sulla Newsletter del Movimento europeo: Meloni ha parlato di “modelli di produzione insostenibili” che portano alla “deindustrializzazione”; ha ribadito l’argomento più falso ed efficace della destra populista e delle ricche lobbies fossili, secondo le quali i “piani verdi” non tengono conto dei bisogni dei ceti sociali più deboli e portano alla de-industrializzazione; è tornata sulla storiella della distruzione dell’industria automobilistica europea a causa del Green Deal e non già per scelte strategiche sbagliate.

A lei ha fatto eco negli stessi giorni il Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, che continua a parlare, ma senza fornire alcun numero, del Green Deal come della più “grande cavolata fatta dall’Europa”, con l’intenzione di battere cassa in particolare a vantaggio di quei settori che non hanno voluto per cambiare un modello di produzione che è in via di estinzione: difenderlo invece di pretendere supporto per aiutare nella transizione è la confusione nella quale si trova una parte importante e influente della rappresentanza delle imprese italiane, che rimangono perciò dipendenti da chi, a partire da ENI e SNAM, inchiodano l’Italia a un modello energetico e industriale che se non cambia non potrà mai tornare ad essere competitivo.

Perché come molti delegati hanno ripetuto a New York, è proprio con una corretta e giusta transizione fuori dalla dipendenza dai combustibili fossili e adeguati investimenti nell'adattamento ai suoi tragici effetti che si potrà rispondere alle esigenze dei settori vulnerabili e all’ansia di tante persone di fronte a un futuro incerto e violento.

Peraltro, la battaglia contro il Green Deal sottovaluta gli importantissimi risultati raggiunti in questi anni dall'Italia. Limitandoci a un settore che “frequento” regolarmente, quello dell’efficienza energetica tra il 2000 e il 2023 si sono risparmiati 28 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (fonte: Odyssee-Mure); sono stati pagati 50 miliardi di euro di meno su bollette di imprese e famiglie; sono stati evitati investimenti e costi operativi per 30–40 GW di nuova capacità elettrica (impianti termoelettrici, eolici, solari); 60–70 milioni di tonnellate di CO₂ non sono state emesse in atmosfera, ecc..(dati “Odyssee”su base Eurostat) ; da non dimenticare sono naturalmente anche i benefici per salute e riduzione dell’inquinamento.

La verità è che la transizione non è una “cavolata” come dice Emanuele Orsini, presidente di Confindustria: è l’unica strada per avere una prospettiva di competitività, occupazione e sicurezza. Il futuro si gioca ora, tra l’imperativo di fermare le guerre e quello della cooperazione e azione climatica. Non possiamo permetterci di sbagliare strada.

Monica Frassoni

30 settembre 2025

Articolo uscito il 1 ottobre su GreenReport https://www.greenreport.it/news/green-economy/58008-guerra-alla-transizione-verde-trump-meloni-e-confindustria-contro-il-green-deal-mentre-la-cina-avanza

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