Si è aperta ieri a Belém la Cop30, il trentesimo incontro annuale dei Paesi firmataridella Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc) e il primo in Amazzonia: nei commenti, prevale l’interessato scetticismo di chi rema contro da un lato, o un certo scoraggiamento di chi vede da decenni risultati insufficienti e l’approssimarsi di una situazione di non ritorno. Ma è inutile abbandonarsi a un pessimismo controproducente.
Perché rispetto a 10 anni fa ci siamo mossi. Non abbastanza ma ci siamo mossi. Dieci anni fa il pianeta era su una traiettoria di aumento catastrofico della temperatura di +4°C rispetto all’era preindustriale. Oggi siamo tra i 2,3° e i 2,8°C. Non ci siamo ancora, ma c’è stato un progresso tangibile; la quota delle rinnovabili sul totale dell'elettricità generata a livello mondiale è cresciuta dal 23% nel 2015 al 28% nel 2021, e ha superato il 30% nel 2024. E gli investimenti sono più o meno il doppio (2 trilioni di dollari) rispetto a quelli comunque ancora altissimi nei combustibili fossili.
L’Ue ha ridotto del 37% le emissioni dal 1990 ad oggi, mentre il Pil è cresciuto del 68%; è più o meno in linea con l’obbiettivo di ridurle del 55% al 2030 e l’economia è sempre più “circolare”. Anche la mobilità sta cambiando: dieci anni fa le auto elettriche erano poco più di un milione. Oggi sono oltre 30 milioni, cinque volte più che nel 2018.
Rispetto a dieci anni fa le batterie costano il 90% in meno, sono molto più efficaci e riciclabili e in molti Paesi l’elettrico è già competitivo con i motori tradizionali. Batterie e accumuli saranno presto la risposta anche alla intermittenza delle rinnovabili, cosa che smonta la necessità di investire di gas e nucleare come soluzione di eterna transizione. E dal 2015, la superficie terrestre e marina protetta è aumentata in modo costante: oggi oltre un quarto delle terre e quasi un quinto dei mari sono tutelati.
Insomma, guardando il quadro complessivo, da Parigi a oggi, il mondo ha rallentato la crescita delle emissioni globali, ha reso accessibile l’energia solare e ha iniziato a invertire la curva della deforestazione amazzonica: e soprattutto le tecnologie ci sono, nuovi modelli e soluzioni emergono ogni giorno e milioni di persone – amministratori locali, università, agricoltori, imprese, giovani e meno giovani – stanno già costruendo il cambiamento.
Alla Cop30 di Belém i negoziatori che hanno iniziato i lavori dovranno affrontare alcune decisioni importanti, adesso che tutto il quadro di regole che doveva essere messo in piedi con l’Accordo di Parigi è completo:
(1) definire nuovi impegni di riduzione delle emissioni che rendano realisticamente possibile rimanere nella traiettoria del target di +1,5 °C,
(2) sbloccare finanziamenti climatici adeguati per paesi vulnerabili,
(3) dare concretezza al meccanismo di “just transition” e al finanziamento per i danni climatici già in atto.
Ma non mancano dati molto inquietanti. L’Emissions Gap Report 2025 dell’Unep non lascia spazio a illusioni: due terzi dei Paesi non è arrivato in tempo per essere incluso nel rapporto, come la Ue, o non ha ancora aggiornato i propri piani. E tra chi li ha presentati, i miglioramenti sono modesti. Se dessimo piena attuazione ai Contributi nazionali determinati (Ndc), ci avvicineremmo a +2,3-2,5 °C entro fine secolo. L’anno scorso il peggior scenario indicava +2,6°C: il miglioramento è così marginale da non poter essere chiamato progresso. A peggiorare le cose, l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi voluta da Trump nel primo anno del suo nuovo mandato pesa per 0,1 °C in più. Piccolo, ma significativo: perché ogni decimo di grado corrisponde a migliaia di vite e di tonnellate di CO₂.
Parallelamente, il Global oil and gas exit list, stilato da una coalizione di ong, mostra che il 96% delle compagnie fossili mondiali continua a espandere la produzione. L’estrazione è prevista in aumento del 33% rispetto al 2021, nonostante l’Agenzia Internazionale dell’Energia avesse chiarito che non servono nuovi giacimenti. Tra le peggiori ci sono Qatar Energy, Saudi Aramco, Adnoc, Gazprom ed ExxonMobil; Eni è tredicesima. Ancora più impressionante: tra il 2023 e il 2025, gli investimenti in fossili superano di decine di voltequanto promesso al fondo “loss and damage”, pensato per risarcire i Paesi poveri colpiti da eventi estremi.
Dieci anni dopo Parigi, sta anche emergendo un dato forse imprevisto A Belém pare che il cosiddetto Occidente non sembri più avere l’ambizione di esercitare una vera leadership climatica: Cina, India, Brasile e molti Paesi del Sud globale stanno prendendo l’iniziativa alle loro condizioni, e questo avrà delle conseguenze anche dal punto di vista della trasparenza, della forza del processo multilaterale e della possibilità di partecipazione della società civile.
La Cina, in particolare, ha presentato per la prima volta un nuovo Ndc con una riduzione assoluta delle emissioni rispetto all’anno di picco, un passo politico e simbolico che indica un cambio di passo insufficiente ma rilevante; ma soprattutto si pone in netto contrasto con il violento negazionismo degli Stati Uniti, che non si accontentano di chiamarsi fuori ma boicottano attivamente ogni passo avanti possibile, come é successo con il blocco, attraverso minacce esplicite di Trump, del sistema di regole, attraverso tasse e incentivi, che già era stato accordato ad aprile per decarbonizzare le flotte e ridurre l’inquinamento delle navi.
Quanto al Brasile, ospite della Cop30, nonostante gli slogan, l’indubbia diminuzione della deforestazione dal ritorno di Lula (-46% in due anni) e lo sviluppo tumultuoso delle rinnovabili lancia messaggi molto contraddittori. Da un lato Lula in un discorso appassionato parla di “summit della verità”, rilancia il fondo Tropical forests forever facility, che punta a mobilitare 125 miliardi di dollari per premiare chi protegge le foreste tropicali e a cui Francia, Germania e Norvegia hanno già annunciato un contributo congiunto di 2,5 miliardi per la foresta del Congo; si fa promotore della Dichiarazione di Belem “sulla fame, la povertà e l’azione climatica centrata sulle persone”, che mira a sostenere i piccoli produttori agricoli e a fare del diritto a una alimentazione sana un pilastro della transizione giusta, in un contesto nel quale il settore agricolo pesa per un terzo sulle emissioni globali. Dall’altra parte, il governo (e il parlamento) brasiliani sostengono l’agroindustria e infrastrutture stradali pesantissime in Amazzonia, hanno ottenuto l’autorizzazione a estrarre petrolio e gas, ivi incluso da una zona delicatissima nel bacino di Foz de Amazonas, si sono posti come obiettivo diventare tra i primi 5 paesi produttori di petrolio entro pochi anni e hanno recentemente aderito all’Opec: il tutto, secondo Lula, per poter finanziare la transizione (!).
L’Europa, ex leader climatica, arriva a Belem in ritardo e divisa, pur restando – è bene sottolinearlo – la regione del mondo con i target più ambiziosi e che contribuisce di più alla finanza climatica. La versione aggiornata della legge sul Clima appena accordata prevede una riduzione nominale del 90% delle emissioni nette al 2040, ma solo l’85% sarà domestico, il restante affidato a progetti nei Paesi terzi. La possibilità di rinegoziare gli obiettivi ogni due anni, anche in base alle condizioni economiche, rischia di indebolire credibilità e fiducia di investitori e imprese; e la scarsa propensione di un numero crescente di governi a sentirsi vincolati a target lontani aumenta l’incertezza sulla direzione che si vuole davvero prendere.
In questo quadro, il ruolo dell’Italia non è particolarmente positivo. Il Piano nazionale energia e clima dello scorso anno segna un mezzo passo avanti sulle rinnovabili, ma anche un mezzo passo indietro sulla loro realizzabilità concreta. Il ministro Tajani all’evento dei leader che tradizionalmente precede la Cop ha esplicitamente puntato su gas, biocombustibili e nucleare; ha promosso con Giappone, India e Brasile una dichiarazione per moltiplicare per quattro la produzione di carburanti “sostenibili” – idrogeno, biogas, biocarburanti e carburanti di sintesi –, una scelta che potrebbe entrare in competizione con la produzione alimentare, aumenta la pressione sulle terre, produce comunque emissioni e rallenta l’uscita dalla dipendenza dai fossili; a Bruxelles il ministro Giorgetti si oppone alla direttiva sulla tassazione dell’energia, ferma da tre anni, che eliminerebbe esenzioni per il gas, e il ministro Pichetto Fratin ha spinto per indebolire i target di riduzione delle emissioni al 2040 e il contributo europeo alla Cop30.
Alla fine, quello che colpisce è il contrasto tra la realtà del clima impazzito, l’evidenza scientifica, le soluzioni disponibili, la preoccupazione dell’opinione pubblica e i governi che puntano i piedi con le imprese fossili stabilmente alle loro porte: conseguenza: stiamo rallentando quando dovremmo accelerare.
E invece, una proposta politica ecologista può essere vincente. A New York, il deputato Zohran Mamdani ha vinto puntando sulla mobilitazione delle persone e una proposta di città accessibile e sostenibile. Ha proposto un piano di edilizia popolare, 500 scuole con pannelli solari, 50 rifugi climatici, autobus gratuiti e 15 000 nuovi posti di lavoro verdi, costruendo la campagna dal basso con 90.000 volontari e oltre 1,6 milioni di contatti porta a porta. Nel New Jersey, la democratica “moderata” Mikie Sherrill ha ribaltato la propaganda anti-eolica dei repubblicani legando energia pulita, occupazione e stabilità dei prezzi. In Virginia, Abigail Spanberger ha sconfitto la destra anti-ambiente con proposte su rinnovabili e agricoltura sostenibile. In Irlanda, la nuova presidente Catherine Connolly ha definito la crisi climatica “la sfida morale del nostro tempo”, unendo giustizia sociale e ambientale.
Da queste esperienze emerge una lezione: la politica climatica non è un lusso, ma vita quotidiana – scuola, casa, lavoro, cibo, salute, aria pulita. Ha bisogno di consenso, ampia mobilitazione e dati affidabili. “Clima e qualità della vita non sono due questioni diverse: sono la stessa cosa”, ricorda Mamdani.
Da qui bisognerà ancora una volta ripartire, comunque vada a Belém.
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